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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Admin (del 02/06/2017 @ 22:15:16, in articoli , linkato 350 volte)
Il deputato Giuseppe Ferrari, in una famosa seduta parlamentare, svoltasi nel mese di ottobre 1860, il cui ordine del giorno verte sull’annessione delle province meridionali al regno sabaudo, ancora una volta affronta il problema in maniera magistrale e autonoma. Non a caso manifesta a più riprese la sua concezione federalista quale unica soluzione possibile per favorire un rapporto pacifico tra le diverse realtà in campo. Pur sapendo che la maggioranza, arroccata sulla centralità amministrativa, delibera in maniera opposta alla sua proposta, non demorde dalla sua linea, ma sviluppa il suo discorso in tutta la sua ariosità concettuale. Avrà la soddisfazione successivamente, sotto l'impeto travolgente dei guasti creati dalla suddetta politica messa in campo dalla controparte, di proclamare la sua completa estraneità alle gravi responsabilità prodotte in termini di perdite umane e materiali, le cui conseguenze durano tuttora. Nell’occasione il deputato mostra di muoversi nella realtà partenopea con padronanza e conoscenza diretta, dato che si è portato a Napoli per motivi di studio. Rivolge il primo tributo a Giambattista Vico, ritenuto suo maestro, quindi, discorrendo della identità partenopea, afferma testualmente: “Il popolo napoletano è poetico, grande, ingegnosissimo”. A supporto di ciò rievoca fatti ed eventi di varia portata, in cui si estrinseca l’anima partenopea pervasa da una umanità profonda, in cui avviene la coesistenza straordinaria degli elementi antitetici, donde si sprigiona la forza necessaria per affrontare le dure prove esistenziali. Siffatta concezione trova il corrispettivo oggettivo nella realtà circostante, modellata in maniera analoga. Infatti, qui convivono Apollo e Dioniso, qui si riscontrano l'essere e il divenire, qui si alternano palazzi maestosi e miseri tuguri con i relativi abitanti, qui si dispiegano parimenti la ragione e il sentimento, qui si intersecano il mare e il Vesuvio, qui persino il cielo e la terra hanno un colore particolare, come dimostrano i santi locali più familiari, San Gennaro e Santa Patrizia, costretti in ogni modo, con toni dolci e toni aspri, con abbracci stretti e strattoni impetuosi, a rispondere alle istanze popolari con la liquefazione del sangue, garanzia per la tranquillità collettiva e individuale. Guai all’interpellato che non rispetti le date prefissate per il miracolo: le richieste si accrescono per timbro ed intensità e ben presto ritorna la corretta comunicazione. A questo punto baci alle statue, preghiere, doni, ringraziamenti, edicole e quant’altro suggerisce il momento. Siffatta affermazione da parte di un professore universitario di filosofia, per giunta milanese e militante della sinistra ottocentesca, spazza via le falsità e le offese sparse a piene mani da chi rigetta ciò che non conosce davvero. Nel caso specifico l'eventuale detrattore perde l’opportunità di entrare nel prezioso circuito di una spiccata umanità che si sostanzia nel vissuto concreto quotidiano.
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Di Admin (del 05/03/2017 @ 21:29:36, in ARTICOLI , linkato 370 volte)
Generale! Anch'io fui vostro amico ed ammiratore delle vostre gesta. Oggi sarò ciò che voi volete, non volendo scendere certamente a giustificarmi di quanto voi accennate nella vostra lettera, d'indecoroso, per parte mia, verso il re e verso l'esercito; e forse in tutto ciò nella mia coscienza di soldato e di cittadino italiano. Circa alla mia foggia mia di vestire, io la porterò finché mi si dica che io non sono più in un libero paese, ove ciascuno va vestito come vuole. Le parole del colonnello Tripoti mi vengono nuove. Io non conosco altri ordini che quello da me dato: di ricevere i soldati dell'esercito del settentrione come fratelli: mentre si sapeva che quell'esercito veniva per combattere la rivoluzione personificata da Garibaldi. Come deputato io credevo avere esposto alla Camera una piccolissima parte dei torti ricevuti dall'esercito meridionale dal ministero e credo di averne diritto. L'armata italiana troverà nelle sue file un soldato di più quando su tratti di combattere i nemici d'Italia; e ciò vi giungerà nuovo. Altro che possiate aver udito di me verso l'armata, è una calunnia. Noi eravamo sul Volturno al vespro della più splendida vittoria nostra, ottenuta nell'Italia del mezzogiorno, prima del vostro arrivo; e tutt'altro che in pessime condizioni. Da quanto so, l'armata ha applaudito alle libere e moderate parole di un milite deputato, per cui l'onore italiano è stato un culto per tutta la sua vita. Se poi qualcheduno si trova offeso del mio modo di procedere, io, parlando in nome di me solo e delle mie parole, di cui sono garante, aspetto tranquillo che mi si chieda soddisfazione delle stesse. Torino, 22 aprile 1861. G. Garibaldi.
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Di Admin (del 05/03/2017 @ 19:59:25, in ARTICOLI , linkato 306 volte)
La sezione Porto è divisa in otto rioni,in ognuno dei quali agisce di giorno un piantone della Pubblica sicurezza e vigila su quanto avviene colà annotandolo su un libretto che offre il destro per relazionare nel merito in questura sulle novità. Dall’avemaria (alba) a mezzanotte la sorveglianza della sezione spetta a dodici piantoni, in quanto due piantoni si aggirano nei punti in cui si intersecano due rioni. Da mezzanotte allo spuntare del giorno girano due uomini per due rioni, in modo che la perlustrazione sezionale vede impegnate sei pattuglie. Sulla scorta di tali guide, percorriamo l'intera sezione. Il primo rione parte dalla chiesa di Porto Salvo, tocca nel punto mediano la porta di Massa e termina a Porto Caputo. Il secondo rione comprende Croce di Porto Salvo, Vico Calce, Largo Mandracchio, Porta della Dogana, Vico Conservazione di Grani, Largo Gran Dogana, Vico Leone e Largo Dogana del Sale. Il terzo rione si estende dalla Porta della Darsena al Caffè Negozianti, guardando l’ imboccatura del Vico Piazza Francese, Vico Carmine, Arco del Fondo, Angolo della Porta Vecchia: il punto medio è il Teatro Sebeto. Nel quarto rione si addensano via del Piliero, i rispettivi tre vicoli omonimi e il vico Neve. Fanno parte del quinto rione la strada Porto, l’imboccatura del Vico Santa Margaritella, vico Giudichella, vico Castagnari, Vico San Giacomo degli Italiani, Vico Monaco, Vico San Nicola alla Dogana, Arco Visita Poveri, Angolo Rua Catalana............
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Di Admin (del 29/05/2015 @ 11:21:53, in articoli , linkato 514 volte)
I giorni 17, 18 e 24 settembre 1943 vanno ascritti tra quelli più dolorosi per Caserta, in quanto la città fu sottoposta a tre incursioni aeree anglo - americane con il lancio di un centinaio di bombe. Nonostante i segnali di allarme dati dai vigili urbani di servizio alla protezione antiaerea, i danni materiali furono notevoli. Infatti, gli edifici pubblici più gravemente danneggiati risultarono la casa comunale, l'istituto delle case popolari, il palazzo dell'ex deputazione provinciale, la stazione ferroviaria, il palazzo reale e le caserme San Carlino e Falciano. I fabbricati civili colpiti e diroccati furono circa quaranta, ubicati nelle vie Corridoio, Renella, Sant'Agostino, Crispo, Vico, Redentore, Ferrovia e corso Umberto Primo. Ben più drammatico risulta il computo delle 55 vittime che, sommate a quelle falciate nel precedente 27 agosto, ascendono a 232.
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Di Admin (del 11/07/2014 @ 19:21:56, in IROSO LUIGI, linkato 767 volte)
La tassa sul macinato del grano e dei cereali, promulgata dal governo il 7 luglio 1868 e destinata ad entrare in vigore l’anno successivo per consentire il pareggio di bilancio, apre ferite profonde nel cuore dell’Emilia, ove si coagula il centro più intransigente dell’opposizione di base ad un indirizzo centrale daziario, scaricato sulla pelle dei più deboli. In questo coro contestatario si distingue fin dalle prime battute la popolazione di Campegine che, sostenuta da qualche affittuario e mezzadro, manifesta il suo malessere con parole più o meno vivaci, pronunciate il 26 dicembre 1868. Nell’occasione il sindaco Domenico Sidoli riunisce in modo amichevole i campeginesi più influenti e li persuade ad attenersi ai mezzi legali, “lasciando le dimostrazioni tumultuarie”. In verità sbaglia di grosso chi reputa che la manifestazione si concluda in giornata definitivamente; al contrario vi si leggono chiari segni che lasciano presagire la ripresa della questione in maniera forte nei giorni successivi. Infatti, l’atmosfera diventa sempre più incandescente nel tempo e, il 31 dicembre, il sindaco, preoccupato per l’incolumità fisica dell’incaricato comunale alla riscossione della suddetta tassa nel mulino Gherardini, ottiene, dietro richiesta urgente, dalle autorità superiori l’invio in loco di un drappello di granatieri del distaccamento di Castelnuovo di Sotto. Le previsioni della vigilia si inverano puntualmente il 1° gennaio 1869 fin dalle ore sette, allorché Luigi Castagnetti diventa promotore di un atteggiamento provocatorio e irriguardoso nei confronti dei carabinieri i quali, temendo la reazione minacciosa dei presenti, ne evitano l’arresto. Ciò determina nell’arco di due ore la massiccia ed aspra partecipazione popolare nei confronti dell’addetto alla riscossione e dei granatieri, costretti dal lancio di pietre e di improperi, il primo, a darsi alla fuga precipitosa e gli altri a rifugiarsi nel palazzo comunale. Proprio qui giungono in qualità di ambasciatori dei tumultuanti Luigi Calossi e Paolo Tagliavini. Essi, giunti al cospetto del segretario comunale, gli indicano senza mezzi termini la via maestra per riportare la calma generale: mandare via il drappello dei soldati. L’interpellato rimanda il prosieguo dell’incontro all’imminente arrivo del capo dell’amministrazione, cui spetta l’emanazione di tale ordine. Poco dopo Luigi Calossi da solo riprende il filo dialogico con il nuovo interlocutore il quale, durante il tragitto, ha dovuto subire la pioggia incalzante di schiamazzi, di fischi e di insulti dei manifestanti. Le condizioni della trattativa rimangono quelle già designate, contro cui si infrangono le esortazioni della controparte inclini alla moderazione e prendono corpo le minacce di dare libero adito alla violenza. Del resto, al termine del colloquio, il palazzo comunale continua ad essere il bersaglio di imprecazioni, di schiamazzi, di sassate e di concreti conati di sfondare le porte. Il capo dell’amministrazione comunale, avendo indossato il tricolore, si affaccia dal balcone con l’intento di convincere la folla a sciogliere il corteo. Deve rientrare immediatamente sotto l’urto delle sassate e delle preoccupanti urla “Morte al sindaco!” e “Abbasso la legge”. La pericolosa situazione lo spinge a far trasportare in tutta fretta nei solai del palazzo i 179 fucili della Guardia nazionale per nasconderli sotto travi e fascine, onde sottrarli alla furia omicida della folla in caso di sfondamento. A questo punto i carabinieri di Castelnuovo di Sotto, in vista di disordini, si sono allontanati per rinsaldare la loro forza e tornano, verso le ore undici e tre quarti, con dieci o dodici granatieri in più. Tale vista esacerba i rivoltosi i quali, accorsi al mulino, a casa Benaglia, alla Casa grande, si armano di pali, badili, vanghe; quindi ritornano a manifestare davanti al palazzo comunale. Il nuovo picchetto, trovatosi alla mercé delle sassate e dei colpi di bastone della folla, compie “due scariche al vento”. Dopo aver visto l’inutilità di siffatta strategia, affida la risoluzione estrema della difficoltà al fuoco delle armi. Segue lo scioglimento della manifestazione, mentre rimangono sul terreno sei morti e parecchi feriti. All’interno del palazzo municipale si tocca con mano la delicatezza del momento, visibile nella constatazione che i rivoltosi, raggruppati “nei trivi delle chiaviche del canale e nelle vicinanze della chiesa parrocchiale”, ritorneranno all’attacco con tutto il potenziale numerico, ascrivibile a più di settecento persone. A fronte di ciò, il sindaco, volendo evitare un ulteriore scontro, foriero di altro spargimento di sangue, decide che i granatieri ritornino a Castelnuovo di Sotto. Quindi egli, opportunamente scortato, si reca di persona in prefettura a Reggio per riferire sulla dinamica degli avvenimenti e chiedere le opportune garanzie per l’ordine pubblico. Immediatamente nella stessa nottata scatta la repressione: un ispettore di Pubblica sicurezza ed un capitano dei carabinieri con uno squadrone di lancieri procedono all’arresto di ventinove campeginesi. In tal modo la linea governativa, fondata sulla cosiddetta tassa sulla fame, strozza la volontà locale con indicibile violenza. Ne sono imperitura e viva testimonianza i seguenti otto martiri che non hanno esitato a sacrificare la loro vita a favore della libertà: Manghi Vittorio, Gabbi Basilio, Davoli Pio, Tagliavini Antonio, Cabassi Luigi, Iemmi Giuseppe, Simonazzi Andrea e Codaluppi Giovanni. Noi non solo plaudiamo all’iniziativa locale di intestare a costoro la piazza principale di Campegine a perenne memoria, ma ne condividiamo l’intima comunione ideale che ha sorretto analoghe battaglie, combattute per la stessa causa qua e là sul suolo nazionale in diversi frangenti temporali. Pertanto diventa pressante l'idea di fondo, incisa nell’immaginario collettivo e non sventolata con il dovuto vigore: la storia di tale scia di sangue, che scorre dal nord al sud, va ritrascritta con urgenza e con chiarezza in tutte le sue angolature, al fine di recuperare il vero tributo pagato dai nostri avi alla causa unitaria dell’Italia. Tale filo valoriale costituisce l’unico collante per rinforzare in modo inestricabile l’inossidabile vincolo familiare dell’intera penisola.
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Di Admin (del 23/06/2014 @ 21:30:51, in articoli, linkato 904 volte)
Il demanio terzignese prorompe con forza al centro della vita politica, domenica 27 luglio 1783, alle ore undici, nella pubblica piazza, ove si tiene la seduta del Parlamento locale per la convenzione da stipularsi con il principe Giuseppe de' Medici, rappresentato dall'avvocato Nicola Maria Vespoli, circa le terre del Mauro e dei Muscettoli. Presiedono il governatore Giacomo Salamiti, gli Eletti Stefano Pascale, Pietro d'Avino e Giuseppe Iovino. I lavori dell’assemblea sono introdotti con la lettura di una relazione circostanziata sull'argomento da parte degli Eletti, che ne ripercorrono a ritroso le radici ataviche. La premessa si chiude con la proposta di porre fine al dissidio con la controparte mediante un accordo, incentrato sulla definitiva divisione a metà dei due demani: esso avrebbe il vantaggio di permettere un ulteriore dispendio di risorse pubbliche in spese giudiziarie. L’unanimità dei consensi dei presenti su tutto il pacchetto demaniale confluisce nella deliberazione finale, la quale sancisce la divisione a metà del demanio: la parte settentrionale a favore dell'Università, quella meridionale a favore del barone. Per la ripartizione, di comune accordo, la scelta cade sull'ingegnere Domenico di Franco, prontamente accorso in loco. Le sue misure, pari a 1058 moggia, rettificano quelle precedenti, che registravano 1583 moggia. In base all'accordo testé concluso, cinquecentoventinove moggia vengono assegnate a ciascuna delle due parti, ognuna delle quali cede cinque palmi di terreno per permettere la costruzione di una strada intermedia fra i due confini. Quindi l'ingegnere si sposta nella parte superiore della strada che porta a Torre, ove rinviene altre due porzioni di terreno da dividere. Seguendo lo stesso criterio di prima, egli divide Le Logge in due parti eguali, ognuna delle quali misura novantasei moggia e cinque quarte, delimitate da un termine di piperno, all'inizio e alla fine. Soggiace alla stessa regola la seconda parte di terreno, della estensione complessiva di tredici moggia, una quarta e due none. In comunione rimangono sia il luogo coperto dalle lave del Vesuvio sia due piccoli boschi. Infine l'ingegnere divide a metà i Muscettoli, la cui estensione misura duecentottanta moggia, cinque quarte e otto none, separandone le rispettive divisioni con termini di piperno. Trova anche una soluzione alla presenza di molte strade, aperte, arbitrariamente, dai vicini possessori: quelle, riscontrate nella zona assegnata all'Università, vengono abolite, mentre il Principe si sarebbe impegnato a tenerne aperte due o tre per permettere la comunicazione alle vie di Poggiomarino e Dente dei Cani con quella che conduce a Ottajano. Il Parlamento approva l'accordo e affida all'avvocato Nicola Doccilli il compito di ottenerne l'approvazione superiore. Costituiscono una notevole battuta d’arresto l’immediata occupazione della zona settentrionale demaniale da parte del principe, nonché il decreto del marchese Sambuca del 22 settembre 1783, lesivo degli interessi collettivi, in quanto esso prescrive forti vincoli alla coltivazione per una parte pianeggiante dei Passanti, considerata riserva reale per la caccia delle quaglie, e per tutto il territorio sovrastante la via Ottajano – Torre Annunziata. A questo punto gli Eletti del 1784, Gaetano Murolo, Saverio Pagano, Donato Boccia e Aniello del Giudice, che hanno partecipato alla stesura dell'accordo, cambiano opinione: inoltrano un'istanza di segno opposto al Sacro Consiglio e attaccano la convenzione, affermando non solo che, in linea di principio, i corpi Mauro e Muscettoli appartengono del tutto all'Università, ma anche, nello specifico, che la parte assegnata all'Università è di gran lunga inferiore a quella attribuita al principe, sia per la quantità che per la qualità dei terreni. Le loro forti rimostranze non trovano calorosi ed entusiastici consensi presso gli avvocati comunali, Michele Barra e Nicola Ercolino, artefici della predetta transazione, per cui la loro pronta sostituzione con Giuseppe Perrotta costituisce un argine invalicabile per l’avallo superiore della divisione demaniale, contestata nelle modalità e nella sostanza. Tutto ciò induce a riattivare l'iter già percorso: convocazione di un altro Parlamento e invio di un altro "tabulario" Nino Malena, presente in loco, il 30 luglio 1784, ove viene accolto dagli Eletti, dal rappresentante del Principe e da due esperti. Il nuovo tecnico inizia a rimisurare, dapprima, il Mauro, identificandone i confini: a occidente, la strada che porta a Torre, ad oriente, la strada pubblica che conduce all'osteria dei Passanti, a mezzogiorno la Masseria del Barone di Massa, a settentrione la lava del Vesuvio e la Masseria di Santa Teresa. Quindi procede a qualche rettifica divisoria rispetto a quanto operato dal collega che l'ha preceduto. Infine, appone solo qualche rilievo di lieve entità sulla ripartizione dei Muscettoli, dettagliatamente riportato nella pianta e descritto nella sua successiva relazione ufficiale. Nemmeno la nuova ripartizione soddisfa la base sociale, la quale, convinta di essere stata penalizzata ancora una volta dal suo avversario, offre incandescente materiale ai ricorsi stilati dall’intrepido avvocato Giuseppe Perrotta, fondati su di una motivazione di fondo oltranzista: i demani Mauro e Muscettoli sono stati sempre di proprietà pubblica, per cui tutti i diritti, pretesi dal barone, risultano arbitrari, in quanto non suffragati da alcun documento probante. Le ostilità giudiziarie nel comparto demaniale compiono il loro corso e si concludono con il forzato avvento in loco, nella seconda parte del 1786, di un altro ripartitore, Gaetano Volpicelli, disposto su ordine del Sacro Consiglio. Il nuovo tecnico conferma i sospetti dei ricorrenti, finalmente lieti: viene delimitata la parte demaniale assegnata al principe, costretto a cedere alla nostra comunità circa ottanta moggia di terreno del Mauro, fatta salva la distribuzione dei Muscettoli, ritenuta congrua, come si evince dalla sua relazione, datata 24 marzo 1787. Il contrattacco del barone, sfociato nel conseguente ricorso, produce l’invio di un altro ripartitore, Grimario, il quale, stranamente, non porta a termine il compito assegnatogli. A questo punto riprende pieno vigore la relazione di Gaetano Volpicelli: essa, però, non riceve l’approvazione superiore (L.Iroso, Terzigno, in Dizionario - Repertorio della provincia di Napoli, a cura di Guido D'Agostino, Paparo Edizioni 2007).
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Di Admin (del 19/06/2014 @ 21:41:25, in articoli, linkato 603 volte)
17 GIUGNO 1883: qui ( a Diamante) siamo angustiati pel cattivo tempo, il quale ci fa perdere l’intero ricolto e minaccia anche la vendemmia, onde procacciamo il nostro vino generoso, uno dei migliori vini d’Italia, che va sotto il nome di vino di Diamante. E’ un lutto generale! Il giorno 17 il temporale fu così veemente e precipitoso, che i fiumi ingrossarono ed uscirono con impeto dai loro letti. Quello di Diamante sorpassò il ponte e lo spezzò; si fece strada nella spiaggia detto lo Scavio con tale furia, che le barche pescherecce furono salve per il coraggio dei nostri marinari, in presenza di buona parte di questa popolazione accorsa allo spettacolo straordinario. I giardini circostanti furono quasi distrutti: granone, fagioli, ortaggi sepolti nella melma. Il fiume di Cirella ha prodotto altri guai. Ha distrutto due mulini, uno di Grisolia e l’altra di Majerà con la perdita di 25 persone tra uomini e donne, che si erano colà coverti nel fango delle terre innaffiatorie di Cirella ed altri caduti nelle acque marine sembrava il finimondo. Spettacolo simile non si era mai visto. Sono corse sopra luogo le autorità competenti, facendo dissotterrare i cadaveri. Una guardia di finanza n’è rimasta ferita. Altri danni sono stati cagionati dalla grossa fiumana di Abatemarco. Le legna trasportate dalle acque sono scese dall’alto dei monti. Nella spiaggia Torrebruca furono sommersi i depositi di legname e le casette del guardiano. Le uve passe sono stata quasi tutte distrutte e i fichi sono andati perduti. La tartana San Vincenzo, che si trovava alla bruca per il caricamento del legname, fu da una raffica di tempestoso vento distaccata dall'ancora e gettata di fianco su quella rada, sicché aprissi in più pezzi che andarono dispersi nel mare ed alcuni furono raccolti sulle spiagge dalla diligenza delle guardie finanziarie. A stento si poté salvare l’equipaggio. Il ricolto di Diamante andrà quasi perduto. Molti sono rovinati. Alcuni attribuiscono l’ingrossamento dei fiumi al continuo disboscamento ed all'incessante commercio e traffico di legname, che da molti anni si pratica in questi luoghi. Certo, che è stato un avvenimento infausto e fatale e che il governo dovrebbe tenere conto di tanti infortuni e disgrazie.
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Di Admin (del 07/03/2014 @ 12:50:44, in articoli , linkato 617 volte)
Il sottoscritto presidente del Consiglio dei Ministri, incaricato degli affari esteri, ha l’onore di far conoscere a V. E. taluni fatti che hanno accompagnato la entrata delle truppe piemontesi nel territorio del regno e che bastano soli a definire il carattere di questa ingiusta invasione. Dopo il primo scontro con le regie truppe, il generale Cialdini avendo fatto prigioniero il generale Scotti si è creduto nel diritto di disporre che il regio giudice di Venafro indirizzasse una comunicazione al tenente generale Ritucci, con la quale dichiara che laddove fosse torto un solo capello ai prigionieri garibaldini, sarebbonsi usate rappresaglie sul generale Scotti e sugli altri prigionieri del reale esercito. Tacendo del carattere ingiusto di questa comunicazione diretta d’ordine d’un Generale comandante un corpo di truppe regolari ad altro generale il quale ritrovasi in posizione affatto simile alla sua, egli è chiaro che tali minacce non erano menomamente giustificate dai fatti precedenti, essendo noto a tutti il trattamento umano e generoso, che per ordine del Re si fa in Gaeta ai prigionieri nemici. Gli stessi prigionieri e feriti garibaldini i quali per le leggi di guerra finora accettate e messe in pratica in ogni potenza civile avrebbero senza alcun dubbio meritato la guerra, che suol darsi ai pirati, furono e sono trattati con tutti i possibili riguardi, nutriti, vestiti ed alloggiati meglio che i fedeli soldati del Re come possono essi medesimi farne testimonianza, mentre i regi fatti prigionieri da Garibaldi il 1° ottobre e condotti in Napoli costringevano a partire pel Piemonte, ove, contro ogni legge militare, si forzavano ad arruolarsi fra le milizie di Sardegna. Un altro avvenimento sul quale il sottoscritto si pregia richiamare tutta l’attenzione della E. S. perché assolutamente contrario alle prime nozioni del diritto di guerra, alle consuetudini ed all’onor militare, è la condotta tenuta dal generale Cialdini nello abboccamento che egli stesso ha sollecitato dal generale Salzano provvisorio comandante in capo dell’esercito. Recavasi il suddetto generale delle truppe del Re al luogo indicato pel ritorno presso Cajaniello, accompagnato da un plotone di cavalleria come scorta che lasciava in Teano, giusta il desiderio espresso dallo stesso generale Cialdini, che si fosse presentato solo all’abboccamento. Essendosi incontrato in Teano con un distaccamento di truppa garibaldina, lo stesso generale Salzano rivolgendosi al loro capo, lo avvertiva che quel plotone formava la sua scorta, e che egli colà lo lasciava ad attenderlo, per recarsi oltre a parlare col Cialdini secondo il convenuto. E’ inutile ripetere le parole di costui, tendenti unicamente a dimostrare la inutilità del combattimento, fondandosi su la vasta estensione della usurpazione piemontese e sui ristretti confini tra i quali si esercita la legittima autorità di S. M. Siciliana. Il generale Salzano, rispondendo tali proposte con quei sensi di fedeltà e di onore che gli sono propri, disse che il suo legittimo re regna a Gaeta e che ne difenderà l’autorità e lo Stato fino a che gli rimanga la vita ed un soldato per combattere con lui. 1° novembre 1860.
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Di Admin (del 30/01/2014 @ 21:17:54, in articoli , linkato 640 volte)
I signori Bacchia, Maldini, Zambelli, Sanchi, Paolucci, (il consigliere di Albini a Lissa), Fincati ed altri, tutti ispirano il Ministro, e , come è ben naturale, costoro non fanno che immaginare vasti progetti d’ingrandimento del loro paese e modi di versare in Venezia i fondi che le risorse di tutta Italia può assegnare al mantenimento della marina. Infatti se si volesse davvero attuare il progetto di trasformare la laguna in un vasto arsenale vi sarebbe bisogno di fortissime spese per installazione di opifici, laboratori, e quanto è necessario a questa vasta istituzione, oltre che bisognerebbe tenere in permanenza almeno un dieci cavafanghi a vapore per mantenere le scavazioni della laguna e renderla navigabile alle grosse navi. Furono appunto queste considerazioni ed altre di convenienza strategica che indussero il governo austriaco a togliere la marina da Venezia e trasportarla a Pola: e noi vorremmo riprendere per conto nostro la falsa posizione di Venezia abbandonata dall’Austria! L’arsenale a Venezia importa che tutti i bastimenti che dovranno trasportare in fondo nell’Adriatico i loro carichi per fornire la marina di carbone, artiglierie, materiali di qualunque natura , dovendo invece di Napoli correre a Venezia debbono allungare di non meno di mille miglia, oltre dei rischi che incontrerebbero in Adriatico nella stagione invernale e che spesso li obbligherebbe a stanziare per lungo tempo nei porti intermedi, così i noli costerebbero immensamente di più al governo ed i generi arriverebbero con grandissimo ritardo, Ogni bastimento da guerra per condursi dopo una missione qualunque in fondo dell’Adriatico dovrebbe consumare ancora cinque in sei giorni di carbone e ciò importerebbe una maggiore spesa al governo. Infine, oltre mille argomenti che militano a sostenere l’inconvenienza del dipartimento marittimo di Venezia, vi è quello della ragion militare ......”.
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Di Admin (del 12/11/2013 @ 18:44:46, in Articoli , linkato 751 volte)
Dinto a lo vico de la Nnoglia, a li Malesciente, e propetamente da coppo a le Pentite de la via de Santo Rafaelo, nc’è stata nsi ajere na fattocchiara che sape addevenà la ventura e sanà ogne malatia pe no granillo. Povera scasata! Li signure n’hanno avuto mmidia e l’hanno mannato a dì ca si non s’accordava co lloro, l’avarriano fatta levà poteca e spennere le vvalenzelle da vicino a le mura. La paura ha fatto fa st’anunione, e mo s’hanno affittata na casa nzieme, e aperto lo niozio, a lo vico de lo Sole. Sentite come s’hanno apertuta sta casa. Comme trase truove na cammarella nera nera co no fenestiello per ll’aria, e attuorno attuorno nce stanno appese l’evere per li ngiarme, nce sta lo jusquiamo e la cambomilla pe sanà ogne dolore de matra. Nce sta mmiezo na fornacella de fierro chiena de ggravune, co tanta sierpe d’ogne mesura che sciosciano lo fuoco pe fa vollere lo decotto dinto a no pezonetto stagnato che nce sta ncoppo. Stace no giovane de speziale che vota la bobba co na cocchiarella de cuorno de vufara e se chiama Agosteniello Mbomma. Trase cchiù dinto, e truove n’antecammara tutta bella pittata e co tanto no lampiero appiso mmiezo; ma ste belle pitture so nguacchiate de rasche, de manere ca chi nce trase s’have da sta attiento pe non se nasprà li vestite. Si quaccuno vo essere addevenata la ventura ha da presentà una mammoria a lo capo ngiarmatore, che tene a capa comm’a vorriello e dì gamme notrzate, che pareno varrile. Nnì che chisto lloco have ntennuto chello ca vuò essere addevenato, accommenza a fa lo ngiarmo, se gratta la capa e se mette n’canna no collaro guarnuto de pelle de coniglio capomazzo, po se sguarra ncopp’a na vrasera chiena de gravunelle, e accommenza a rusecà mutte bernische; apre lo liberetiello janco, e dice che te vole fa ricco si tiene denare assai; s’arreposa e se mette n’capa na giorlanna de lauriello e de fronne de vigne; chiamma Mbomma, se fa portà no piatto chino de sauza piccanta, e se mette a magnà co la soleta cucchiarella de cuorno de vufara; s’annetta lo musso, se fa caccià na carta de Barbaria, e spalefeca lo nommo de n’Aroe pajesano. Fa no sisco, e vide ascì da sotto a na cascetta duje canille arraggiate, ma che lo ngiarmo fa paré cianciuse. ...................
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