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Di Admin (del 11/07/2014 @ 19:21:56, in IROSO LUIGI, linkato 800 volte)
La tassa sul macinato del grano e dei cereali, promulgata dal governo il 7 luglio 1868 e destinata ad entrare in vigore l’anno successivo per consentire il pareggio di bilancio, apre ferite profonde nel cuore dell’Emilia, ove si coagula il centro più intransigente dell’opposizione di base ad un indirizzo centrale daziario, scaricato sulla pelle dei più deboli. In questo coro contestatario si distingue fin dalle prime battute la popolazione di Campegine che, sostenuta da qualche affittuario e mezzadro, manifesta il suo malessere con parole più o meno vivaci, pronunciate il 26 dicembre 1868. Nell’occasione il sindaco Domenico Sidoli riunisce in modo amichevole i campeginesi più influenti e li persuade ad attenersi ai mezzi legali, “lasciando le dimostrazioni tumultuarie”. In verità sbaglia di grosso chi reputa che la manifestazione si concluda in giornata definitivamente; al contrario vi si leggono chiari segni che lasciano presagire la ripresa della questione in maniera forte nei giorni successivi. Infatti, l’atmosfera diventa sempre più incandescente nel tempo e, il 31 dicembre, il sindaco, preoccupato per l’incolumità fisica dell’incaricato comunale alla riscossione della suddetta tassa nel mulino Gherardini, ottiene, dietro richiesta urgente, dalle autorità superiori l’invio in loco di un drappello di granatieri del distaccamento di Castelnuovo di Sotto. Le previsioni della vigilia si inverano puntualmente il 1° gennaio 1869 fin dalle ore sette, allorché Luigi Castagnetti diventa promotore di un atteggiamento provocatorio e irriguardoso nei confronti dei carabinieri i quali, temendo la reazione minacciosa dei presenti, ne evitano l’arresto. Ciò determina nell’arco di due ore la massiccia ed aspra partecipazione popolare nei confronti dell’addetto alla riscossione e dei granatieri, costretti dal lancio di pietre e di improperi, il primo, a darsi alla fuga precipitosa e gli altri a rifugiarsi nel palazzo comunale. Proprio qui giungono in qualità di ambasciatori dei tumultuanti Luigi Calossi e Paolo Tagliavini. Essi, giunti al cospetto del segretario comunale, gli indicano senza mezzi termini la via maestra per riportare la calma generale: mandare via il drappello dei soldati. L’interpellato rimanda il prosieguo dell’incontro all’imminente arrivo del capo dell’amministrazione, cui spetta l’emanazione di tale ordine. Poco dopo Luigi Calossi da solo riprende il filo dialogico con il nuovo interlocutore il quale, durante il tragitto, ha dovuto subire la pioggia incalzante di schiamazzi, di fischi e di insulti dei manifestanti. Le condizioni della trattativa rimangono quelle già designate, contro cui si infrangono le esortazioni della controparte inclini alla moderazione e prendono corpo le minacce di dare libero adito alla violenza. Del resto, al termine del colloquio, il palazzo comunale continua ad essere il bersaglio di imprecazioni, di schiamazzi, di sassate e di concreti conati di sfondare le porte. Il capo dell’amministrazione comunale, avendo indossato il tricolore, si affaccia dal balcone con l’intento di convincere la folla a sciogliere il corteo. Deve rientrare immediatamente sotto l’urto delle sassate e delle preoccupanti urla “Morte al sindaco!” e “Abbasso la legge”. La pericolosa situazione lo spinge a far trasportare in tutta fretta nei solai del palazzo i 179 fucili della Guardia nazionale per nasconderli sotto travi e fascine, onde sottrarli alla furia omicida della folla in caso di sfondamento. A questo punto i carabinieri di Castelnuovo di Sotto, in vista di disordini, si sono allontanati per rinsaldare la loro forza e tornano, verso le ore undici e tre quarti, con dieci o dodici granatieri in più. Tale vista esacerba i rivoltosi i quali, accorsi al mulino, a casa Benaglia, alla Casa grande, si armano di pali, badili, vanghe; quindi ritornano a manifestare davanti al palazzo comunale. Il nuovo picchetto, trovatosi alla mercé delle sassate e dei colpi di bastone della folla, compie “due scariche al vento”. Dopo aver visto l’inutilità di siffatta strategia, affida la risoluzione estrema della difficoltà al fuoco delle armi. Segue lo scioglimento della manifestazione, mentre rimangono sul terreno sei morti e parecchi feriti. All’interno del palazzo municipale si tocca con mano la delicatezza del momento, visibile nella constatazione che i rivoltosi, raggruppati “nei trivi delle chiaviche del canale e nelle vicinanze della chiesa parrocchiale”, ritorneranno all’attacco con tutto il potenziale numerico, ascrivibile a più di settecento persone. A fronte di ciò, il sindaco, volendo evitare un ulteriore scontro, foriero di altro spargimento di sangue, decide che i granatieri ritornino a Castelnuovo di Sotto. Quindi egli, opportunamente scortato, si reca di persona in prefettura a Reggio per riferire sulla dinamica degli avvenimenti e chiedere le opportune garanzie per l’ordine pubblico. Immediatamente nella stessa nottata scatta la repressione: un ispettore di Pubblica sicurezza ed un capitano dei carabinieri con uno squadrone di lancieri procedono all’arresto di ventinove campeginesi. In tal modo la linea governativa, fondata sulla cosiddetta tassa sulla fame, strozza la volontà locale con indicibile violenza. Ne sono imperitura e viva testimonianza i seguenti otto martiri che non hanno esitato a sacrificare la loro vita a favore della libertà: Manghi Vittorio, Gabbi Basilio, Davoli Pio, Tagliavini Antonio, Cabassi Luigi, Iemmi Giuseppe, Simonazzi Andrea e Codaluppi Giovanni. Noi non solo plaudiamo all’iniziativa locale di intestare a costoro la piazza principale di Campegine a perenne memoria, ma ne condividiamo l’intima comunione ideale che ha sorretto analoghe battaglie, combattute per la stessa causa qua e là sul suolo nazionale in diversi frangenti temporali. Pertanto diventa pressante l'idea di fondo, incisa nell’immaginario collettivo e non sventolata con il dovuto vigore: la storia di tale scia di sangue, che scorre dal nord al sud, va ritrascritta con urgenza e con chiarezza in tutte le sue angolature, al fine di recuperare il vero tributo pagato dai nostri avi alla causa unitaria dell’Italia. Tale filo valoriale costituisce l’unico collante per rinforzare in modo inestricabile l’inossidabile vincolo familiare dell’intera penisola.
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