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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
I giorni 17, 18 e 24 settembre 1943 vanno ascritti tra quelli più dolorosi per Caserta, in quanto la città fu sottoposta a tre incursioni aeree anglo - americane con il lancio di un centinaio di bombe. Nonostante i segnali di allarme dati dai vigili urbani di servizio alla protezione antiaerea, i danni materiali furono notevoli. Infatti, gli edifici pubblici più gravemente danneggiati risultarono la casa comunale, l'istituto delle case popolari, il palazzo dell'ex deputazione provinciale, la stazione ferroviaria, il palazzo reale e le caserme San Carlino e Falciano. I fabbricati civili colpiti e diroccati furono circa quaranta, ubicati nelle vie Corridoio, Renella, Sant'Agostino, Crispo, Vico, Redentore, Ferrovia e corso Umberto Primo. Ben più drammatico risulta il computo delle 55 vittime che, sommate a quelle falciate nel precedente 27 agosto, ascendono a 232.
La sezione Porto è divisa in otto rioni,in ognuno dei quali agisce di giorno un piantone della Pubblica sicurezza e vigila su quanto avviene colà annotandolo su un libretto che offre il destro per relazionare nel merito in questura sulle novità. Dall’avemaria (alba) a mezzanotte la sorveglianza della sezione spetta a dodici piantoni, in quanto due piantoni si aggirano nei punti in cui si intersecano due rioni. Da mezzanotte allo spuntare del giorno girano due uomini per due rioni, in modo che la perlustrazione sezionale vede impegnate sei pattuglie. Sulla scorta di tali guide, percorriamo l'intera sezione. Il primo rione parte dalla chiesa di Porto Salvo, tocca nel punto mediano la porta di Massa e termina a Porto Caputo. Il secondo rione comprende Croce di Porto Salvo, Vico Calce, Largo Mandracchio, Porta della Dogana, Vico Conservazione di Grani, Largo Gran Dogana, Vico Leone e Largo Dogana del Sale. Il terzo rione si estende dalla Porta della Darsena al Caffè Negozianti, guardando l’ imboccatura del Vico Piazza Francese, Vico Carmine, Arco del Fondo, Angolo della Porta Vecchia: il punto medio è il Teatro Sebeto. Nel quarto rione si addensano via del Piliero, i rispettivi tre vicoli omonimi e il vico Neve. Fanno parte del quinto rione la strada Porto, l’imboccatura del Vico Santa Margaritella, vico Giudichella, vico Castagnari, Vico San Giacomo degli Italiani, Vico Monaco, Vico San Nicola alla Dogana, Arco Visita Poveri, Angolo Rua Catalana............
Generale! Anch'io fui vostro amico ed ammiratore delle vostre gesta. Oggi sarò ciò che voi volete, non volendo scendere certamente a giustificarmi di quanto voi accennate nella vostra lettera, d'indecoroso, per parte mia, verso il re e verso l'esercito; e forse in tutto ciò nella mia coscienza di soldato e di cittadino italiano.
Circa alla mia foggia mia di vestire, io la porterò finché mi si dica che io non sono più in un libero paese, ove ciascuno va vestito come vuole.
Le parole del colonnello Tripoti mi vengono nuove. Io non conosco altri ordini che quello da me dato: di ricevere i soldati dell'esercito del settentrione come fratelli: mentre si sapeva che quell'esercito veniva per combattere la rivoluzione personificata da Garibaldi.
Come deputato io credevo avere esposto alla Camera una piccolissima parte dei torti ricevuti dall'esercito meridionale dal ministero e credo di averne diritto.
L'armata italiana troverà nelle sue file un soldato di più quando su tratti di combattere i nemici d'Italia; e ciò vi giungerà nuovo.
Altro che possiate aver udito di me verso l'armata, è una calunnia.
Noi eravamo sul Volturno al vespro della più splendida vittoria nostra, ottenuta nell'Italia del mezzogiorno, prima del vostro arrivo; e tutt'altro che in pessime condizioni. Da quanto so, l'armata ha applaudito alle libere e moderate parole di un milite deputato, per cui l'onore italiano è stato un culto per tutta la sua vita. Se poi qualcheduno si trova offeso del mio modo di procedere, io, parlando in nome di me solo e delle mie parole, di cui sono garante, aspetto tranquillo che mi si chieda soddisfazione delle stesse. Torino, 22 aprile 1861. G. Garibaldi.
Il deputato Giuseppe Ferrari, in una famosa seduta parlamentare, svoltasi nel mese di ottobre 1860, il cui ordine del giorno verte sull’annessione delle province meridionali al regno sabaudo, ancora una volta affronta il problema in maniera magistrale e autonoma. Non a caso manifesta a più riprese la sua concezione federalista quale unica soluzione possibile per favorire un rapporto pacifico tra le diverse realtà in campo. Pur sapendo che la maggioranza, arroccata sulla centralità amministrativa, delibera in maniera opposta alla sua proposta, non demorde dalla sua linea, ma sviluppa il suo discorso in tutta la sua ariosità concettuale. Avrà la soddisfazione successivamente, sotto l'impeto travolgente dei guasti creati dalla suddetta politica messa in campo dalla controparte, di proclamare la sua completa estraneità alle gravi responsabilità prodotte in termini di perdite umane e materiali, le cui conseguenze durano tuttora. Nell’occasione il deputato mostra di muoversi nella realtà partenopea con padronanza e conoscenza diretta, dato che si è portato a Napoli per motivi di studio. Rivolge il primo tributo a Giambattista Vico, ritenuto suo maestro, quindi, discorrendo della identità partenopea, afferma testualmente: “Il popolo napoletano è poetico, grande, ingegnosissimo”. A supporto di ciò rievoca fatti ed eventi di varia portata, in cui si estrinseca l’anima partenopea pervasa da una umanità profonda, in cui avviene la coesistenza straordinaria degli elementi antitetici, donde si sprigiona la forza necessaria per affrontare le dure prove esistenziali. Siffatta concezione trova il corrispettivo oggettivo nella realtà circostante, modellata in maniera analoga. Infatti, qui convivono Apollo e Dioniso, qui si riscontrano l'essere e il divenire, qui si alternano palazzi maestosi e miseri tuguri con i relativi abitanti, qui si dispiegano parimenti la ragione e il sentimento, qui si intersecano il mare e il Vesuvio, qui persino il cielo e la terra hanno un colore particolare, come dimostrano i santi locali più familiari, San Gennaro e Santa Patrizia, costretti in ogni modo, con toni dolci e toni aspri, con abbracci stretti e strattoni impetuosi, a rispondere alle istanze popolari con la liquefazione del sangue, garanzia per la tranquillità collettiva e individuale. Guai all’interpellato che non rispetti le date prefissate per il miracolo: le richieste si accrescono per timbro ed intensità e ben presto ritorna la corretta comunicazione. A questo punto baci alle statue, preghiere, doni, ringraziamenti, edicole e quant’altro suggerisce il momento. Siffatta affermazione da parte di un professore universitario di filosofia, per giunta milanese e militante della sinistra ottocentesca, spazza via le falsità e le offese sparse a piene mani da chi rigetta ciò che non conosce davvero. Nel caso specifico l'eventuale detrattore perde l’opportunità di entrare nel prezioso circuito di una spiccata umanità che si sostanzia nel vissuto concreto quotidiano.
Giulio Cesare Vanini nacque nel 1585 a Taurisano presso Lecce. Si laureò in diritto presso la Scuola di Salerno. Nella circostanza pronunciò il giuramento di rito: "Ego Julius Caesar Vanini ex civitate Licii, spondeo, voveo et juro, sic me Deus adjuvet et haec sancta Dei Evangeli". Propugnatore delle nuove dottrine contro Aristotele, si segnala come oratore violento e visita vari paesi europei. Nel 1615 pubblicò a Lione la prima opera "Amphitheatrum aeternae Providentiae ........ ", e l'anno successivo la seconda "De admirandis Naturae reginae deaeque mortalium arcanis". A Tolosa fu accusato di ateismo presso il parlamento da un certo Franconi. Condotto in tribunale fu condannato a morte. Nell'occasione egli non si scompose più di tanto: dopo aver preso da terra un fuscello di paglia, si rivolse al giudice e disse: "Questa sola mi basta per provare l'esistenza di Dio". Quindi pronunciò un discorso molto importante. La pena capitale venne eseguita nel febbraio 1619, allorché Vanini aveva trentaquattro anni. Nella circostanza subì prima il taglio della lingua, quindi fu arso a fuoco lento.
Giovanni Battista Jesi soprannominato Pergolesi nacque nel 1707 a Pergola, nei pressi di Pesaro, nell'antico ducato di Urbino. Il soprannome, desunto dalla natia località, si deve ai condiscepoli del conservatorio di Sant'Onofrio di Napoli, ove egli fu condotto all'età di dieci anni. Qui ebbe come maestro Gaetano Greco, famoso allievo di Alessandro Scarlatti e suo successore come professore di contrappunto. Dopo nove anni di lavori e studi intensi uscì dal conservatorio e compose per un convento un oratorio intitolato San Guglielmo. Su incarico del principe di Agliano scrisse per il teatro dei Fiorentini un intermezzo buffo, Amor fé l'uomo cecco, che non ebbe successo. Non ebbe migliore fortuna l'opera successiva, Recimero. Tali risultati deludenti gli imposero una riflessione di due anni, durante i quali si dedicò a scrivere musica da camera. Finalmente nel 1730 compose la musica della Serva padrona, rappresentata nel teatro napoletano di San Bartolomeo. Ebbe uno straordinario successo, superiore persino a quello conseguito con le opere successive, il Maestro di musica e il Geloso schernito. Nel 1734 fu nominato maestro di cappella della signora de Lorette. L'anno dopo si recò a Roma, ove scrisse per il teatro Tordinione l'opera Olimpiade.
1) Siervo, de, Fedele sindaco;2) Cadorna Giuseppe; 3) Pandola Ferdinando; 4) Turchi Marino; 5) Manna Giovanni; 6) Beneventani Valerio; 7) Belelli Federico; 8) Cacace Tito; 9) Schiani Domenico; 10)Strigari Demetrio; 11) Capuano Giambattista; 12) Rocca, della, Agostino; 13) Errico, d', Emiddio; 14) Napoli, de, Michele; 15) Ruggieri, de, Ruggiero; 16) Tenore Vincenzo; 17) Rendina Federico; 18) Renzi, de, Salvatore; 19) Duca di Petrizzi; 20) Pepe Michele; 21) Filioli Giuseppe; 22) Gigante Raffaele; 23) Freppa Carlo; 24) Caracciolo d'Avellino Giovanni; 25) Agostino, d', Gennaro; 26) Catalano Errico;27) Amato, d', Gaetano Maria; 28) Barracco Roberto; 29) Cortese Paolo; 30) Lauria Ercole; 31) Serena Gennaro; 32) Villari Vincenzo; 33) Mari Tommaso; 34) Muzi Gian Domenico; 35) Tiriolo Vitaliano; 36) Mascilli Ferdinando; 37) Maione Achille; 38) Mignogna Nicola; 39) Barilla Felice; 40) Medici Giuseppe Principe di Ottaiano; 41) Fanelli Giuseppe; 42) Martino, de, Domenico; 43) Morelli Salvatore; 44) Rizzo Antonio; 45) Notaristefano Lorenzo; 46) Lazzaro Achille; 47) Avitabile marchese Michele; 48) Zuppetta Luigi; 49) Albini Gigante; 50) Matina Giovanni; 51) Aveta Carlo; 52) Re, del, Carlo; 53) Matina Giovanni; 54) Giuliano Giuseppe; 55) Mauro Domenico; 56) Piscopo Antonio; 57) Arlotta Giuseppe; 58) Giura Francesco; 59) Barbarise Gennaro; 60) Abignente Filippo; 61) Pulce Giuseppe; 62) Incagnoli Angelo; 63) Duplessis Achille; 64) Gallotti barone Giuseppe; 65) Carafa Nicola duca di Forlì; 66) Cedronio Ercole; 67) Rosica Achille; 68) Savarese Roberto; 69) Giordano Francesco; 70) Sambiase Gennaro duca di San Donato; 71) Raffaele Federico.
Manca il 72° consigliere per le dimissioni date dal sig. Giuseppe Arditi il 13 luglio 1863.
A Napoli la musica ha radici antiche e robuste. La linfa vitale proviene dai quattro conservatori di istruzione musicale, la cui istituzione risale al Cinquecento. Non è possibile puntualizzare l'anno esatto della loro nascita, in quanto tuttora permangono notizie contrastanti in merito. Il conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo fu fondato da Marcello Foscataro, terziario di San Francesco d'Assisi e nativo della città calabrese di Nicotera. Costui, grazie alle elemosine raccolte nella nostra città, acquistò la struttura e fece riattare la chiesa dedicandola alla Madre di Misericordia. Quindi, dopo aver scritto le regole, ebbe l'approvazione dal cardinale napoletano Alfonso Gesualdo. A questo punto raccolse i fanciulli poveri, dai sette agli undici anni, che in poco tempo raggiunsero il numero di cento. Erano gratuiti il vitto, l'alloggio e il vestiario, consistente in una veste lunga di colore azzurro e in una sopravveste azzurra. L'istruzione verteva sulla lingua italiana e sulla musica. L'istituto era governato da due canonici della cattedrale di Napoli. Il Conservatorio di Santo Onofrio a Capuana deve la sua denominazione al fatto che è posto nella contrada di Capuana, di fronte all'antica reggia reale detta Castel Capuano. Si ignora l'anno della sua fondazione. Tuttavia nel 1600 molti cittadini delle contrade di Santa Caterina a Formiello, di Santa Maria Maddalena, di Santa Maria a Cancello e di Santa Sofia istituirono un'arciconfraternita chiamata dei Banchi. Gli associati, con il ricavato delle questue e delle esequie acquistarono l'edificio adiacente alla suddetta cappella, formato da due piani, lo ristrutturarono e lo trasformarono in asilo agli orfani dell'ottina. Il numero dei ragazzi crebbe fino a centoventi, istruiti nella "cristiana pietà" e nella musica. Sciolta l'arciconfraternita, fu fondato un conservatorio con il titolo di Sant'Onofrio. Il terzo conservatorio chiamato di Santa Maria di Loreto deve la sua nascita ad un artigiano di nome Francesco il quale, il 29 giugno 1535, fonda una cappella nel largo di Santa Maria di Loreto con l'intento di raccogliere i poveri fanciulli napoletani, di ambo i sessi. Poco dopo i benestanti locali contribuirono a sostenere con le loro offerte l'istituzione caritatevole, tanto che l'istruzione impartita contemplò sia le lettere sia l'arte musicale. Vi fu un cambio di passo con l'avvento del sacerdote spagnolo don Giovanni di Tappia il quale, dopo averne assunto la direzione, si sottopose ad un vero e proprio pellegrinaggio per tutto il regno, al fine di raccogliere i dovuti fondi. Con l'ingente ricavato egli poté trasferire l'istituzione in un luogo più vasto e più vicino alla chiesa di Santa Maria di Loreto. Il quarto conservatorio della Pietà dei Turchini fu fondato nei primi anni del 1500. All'epoca la città di Napoli era assalita da varie sventure. Il cardinale Mons. Mario Carafa ordinava preghiere e digiuni al popolo, che si riuniva ogni giorno nella chiesa della Pietatella, allocata lungo sulla strada chiamata Rua Catalana. Qui l'arcivescovo fondava la confraternita detta dei Bianchi di Santa Maria della Incoronatella in omaggio al nuovo nome della suddetta chiesa. Alla sua direzione fu preposto il sacerdote don Orazio del Monte il quale, nel 1584, ebbe l'incarico, prontamente eseguito, di scrivere le regole le quali furono approvate con analoga celerità. Intanto l'arciconfraternita muta il nome di Incoronatella in quello della Pietà dei Turchini.
Le scuole nautiche di Piano e Carotto devono la loro origine a Francesco Vulcano. Costui lascia, nel 1348, per la fondazione di un ospedale la metà dei suoi beni che, contro la sua volontà, sono incorporati nel patrimonio del vescovado di Sorrento. Di qui si apre una lite tra le due parti in causa. Il contenzioso giudiziario termina con una sentenza favorevole alla famiglia Vulcano che rimane amministratrice del lascito, anche se pende sul suo capo l'obbligo di dare alle scuole comunitarie di Sorrento 350 ducati. Successivamente subentra in tale amministrazione il Comune. Quindi nel 1785 le suddette scuole sono ordinate all'educazione nautica e dotate di nuove rendite. Con il decreto di Gioacchino Murat, datato 20 giugno 1809, l'insegnamento viene diviso in quattro classi e la scuola di Alberi risulta destinata all'istruzione rudimentale.
Fior di ravanelli, / I cervi son fuggiti dopo i galli; / Caduta è la potenza di Antonelli? / Fior di castagna, / Oggi che a Roma il papa più non regna / E' finita dei preti la cuccagna? /Fior di zucchette, Le bande di zuavi fur disfatte / E' scappato pur anche de Carrette. / Fior di malachita,/ Ora che la baracca è scassinata/ Più a Roma non vi resti un gesuita./ Fior di caviale, / A Roma finalmente è uscito il sole. / E' cessato per sempre il temporale. / Fior di granito, / Ed è non solo il temporale caduto, / Ma è pure l'Infallibile fallito!/. Fior di limone, / Aiutarti non può neppure un cane / Ché è finito puranche Napoleone. /Fior di spaghetti, / I preti si preparano i fagotti; / Sono entrati Cadorna ed Angioletti. / Fior di camelia, / Ora si potrà dire una è l'Italia, / Perché si fa davvero e non per celia. / Fior di Pomidori, / Diventeremo tutti cavalieri, / E lasceremo d'essere monsignori.